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Il cibo: sublime ossessione
(Gioie e lacrime… piaceri e doveri… godimenti e dipendenze)
Buongiorno, la storia che oggi vi voglio raccontare l’ho pensata e scritta in un bosco. Mi ci è voluta una settimana.
Oddio, non è che ho fatto l’eremita per sette giorni girovagando in un bosco. E poi non si trattava di un bosco qualunque; parlo del “Bosco dei Pensieri”, si trova a Fontanafredda nelle Langhe ed è un bosco di 13 ettari posto di fronte alle vigne di nebbiolo da barolo, sul lato esposto a nord, dove i nostri nonni non ci pensavano proprio a piantare vigne. Quelle vanno rivolte a sud, dove c’è il sole da mattino a sera. Per questo motivo, 15 anni fa, quando sono arrivato a Fontanafredda, ho deciso di lasciarlo il bosco, anche se avrei potuto piantarci le viti, come tanti altri hanno fatto sulle colline delle Langhe che guardano a nord. È una questione di rispetto (e di qualità) … ne parleremo.
Invece l’abbiamo “attrezzato” il nostro bosco, nel senso che vi abbiamo ricavato un bel percorso, suddiviso in 12 tappe dove, per ogni tappa, abbiamo installato delle panchine e cartelli che raccontano cos’è un bosco, ma anche suggeriscono, attraverso puntuali aforismi, di approfondire un tema. L’obiettivo è quello di favorire il pensiero su valori alti, legati a questioni agricole e del nutrimento di qualità, ma non solo; trovano spazio pure altri principi … diciamo più metafisici. Il cibo, come spero di dimostrarvi, porta a ragionamenti che toccano diverse sfere della vita, sia di quella personale che sociale.
Dunque mi sono chiesto perché non usarlo anche io quel bosco, visto che dovevo pensare. In estate non avrei potuto, ci viene troppa gente, ma d’inverno non c’è nessuno e siccome il tempo era bello…
I numeri e… la vita
Così sono andato nel Bosco dei Pensieri ogni giorno, per qualche ora. Ad ogni tappa mi sedevo sulla panchina, pensavo e scrivevo. Di tappe però ne facevo solo 6, quelle più basse, perché in punta c’era la neve. Una dozzina di righe per ogni panchina, una media di 18 parole per ogni riga, per 6 tappe, per 7 giorni. Dunque, fanno… più o meno 500 righe, intorno alle 9 mila parole: un’oretta per dirvele, come sto facendo ora.
Avete capito che mi piacciono i numeri, e avete anche capito che mi piacciono i numeri “più o meno”, in quanto ritengo che non esista il numero perfetto. Penserete mica che, quando leggo gli inventari dei 42 magazzini che abbiamo nel mondo e mi trovo davanti a quel numero finale che ne rappresenta la somma (sempre troppo grande per me), io creda che quel numero sia giusto? Non è mai il numero giusto, l’importante è che sia il più vicino possibile a quello vero… che non conoscerò mai. Ma mi basta, anzi pretendo, che sia “più o meno” quello giusto. Coloro che si accaniscono sul numero perfetto perdono un sacco di tempo, non ci arriveranno mai e spesso durante il loro cocciuto percorso si ingarbugliano… andando fuori strada. Diciamo che, “più o meno”, si procurano gli stessi danni di quelli che i numeri non li guardano mai, fidandosi esclusivamente del proprio naso. Entrambe le categorie, quella dei perfettini e quell’altra dei presuntuosi, vanno a sbattere. Io non voglio andare a sbattere, quindi do importanza ai numeri ma nello stesso tempo li peso per quello che sono: indispensabili e imperfetti.
D’altra parte il completo percorso della nostra vita è costituito da imperfezioni… la sublime imperfezione della vita. Ecco che interviene per la prima volta questo aggettivo elegante: sublime, da sub (sotto) e limen (soglia), cioè che giunge fin sotto la soglia del… celestiale, dunque bello, elevato, altissimo, ma non solo in senso estetico; tornerà tra poco questo aggettivo. L’imperfezione,
dicevo, è incontrovertibile, poiché è insita in noi umani, ma diventa sublime se la riconosci e la sai gestire, come altre cose del nostro modo di esistere che partono da connotazioni negative ma poi virano verso il bello nel momento in cui le riconosci, le studi e impari a controllarle: certe ossessioni per esempio. Tuttavia ho sbagliato a definirlo “completo” il nostro percorso, perché i percorsi completi conoscono il punto di partenza e quello d’arrivo. Mentre noi non sappiamo nulla del primo e neppure del secondo. La verità è che non possediamo la sapienza del perché siamo nati, perché proprio in quel determinato tempo, perché in quella famiglia, quel posto, quel tipo di cultura figlia di centinaia di generazioni prima di noi… come non abbiamo la minima idea di cosa ci accadrà giunti alla morte. Oddio, qualche idea ce la siamo fatta, ci abbiamo pure costruito sopra delle religioni, ma sono congetture… come certi numeri campati in aria, così tanto per riempire un vuoto.
Debbo tuttavia riconoscere che forse abbiamo fatto bene a indagare costruendoci delle ipotesi; considero comprensibile la predisposizione umana a riempire i vuoti, fa parte del tema (immane) della speranza … vedrete che nella storia che vi racconto non mancherà mai la speranza.
Una storia che può diventare Lectio, perfino Magistralis
Ma oggi, qui, dobbiamo occuparci di quella parte del percorso, “con una validità ridicolmente breve, limitata dalle due date categoriche ma, qualunque cosa ancora noi pensassimo di questo mondo, esso è stupefacente…” che è la vita. Cioè di quella parte della vita (breve ma ricca di tanta roba come dice Wislawa Szymborska) sulla quale possiamo prendere decisioni noi, noi umani. E mi piacerebbe molto che questa, che nel mio incipit ho chiamato “storia”, possa meritarsi alla fine il nobile termine di “Lectio”, così come è stata intitolata nella (generosa) presentazione. Magari addirittura conquistarsi l’altezza di “Magistralis”, come (troppo generosamente) è stata definita. Una storia che diventa “Lectio” nel senso di essere capace a procurare apprendimento, e poi “Magistralis” nella speranza che l’apprendimento venga riconosciuto di particolare rilevanza e procurato da una persona competente e di fama.
Ora riderete della mia auto stima e non vi biasimo, ammetto di essere uno che si piace, ma non più di tanti altri, e poi vi confesso che il sentimento non è costante in me, ci sono volte in cui mi sono antipatico (per esempio qualche secondo fa) e altre in cui mi trovo impreparato, giuro. Ma fa bene, credetemi, fa bene disistimarsi con una certa frequenza.
Semplicemente credo che il motivo per cui sono qui, ora, è dovuto al fatto che da una ventina d’anni non mi occupo che di cibo. E nel farlo, oltre che studiare in solitudine, ho studiato insieme a migliaia di collaboratori, alcuni dei quali ne sanno ben più di me, insieme a centinaia di agricoltori e artigiani del cibo di altissimo livello sia in fatto di sapienza che di rispetto, insieme a filosofi e storici dell’alimentazione, insieme a diversi medici i quali operano nella convinzione che il cibo sano, e nella giusta quantità nonché varietà, sia la prima medicina. E poi, mentre imparavo da questi meravigliosi personaggi, siccome sono un mercante e siccome amo il Paese dove sono nato, insieme a quei fortissimi collaboratori di cui vi ho detto, abbiamo costruito una rete di luoghi nel mondo che celebrano (oltre che vendere) l’arte italiana di creare cibi di alta qualità. Lo facciamo in 17 nazioni del mondo. Sapete, esiste un modo semplice per costatare le enormi potenzialità del nostro Paese in fatto di agroalimentare: allontanarsene e guardarlo dall’estero, insieme agli stranieri. Un po’ come quando appendi un quadro alla parete e poi te ne allontani per vedere se sta bene nella stanza… e debbo confessarvi che l’Italia può stare veramente bene nella stanza del mondo.
Credo che sia questo l’unico motivo per cui sono qui, oggi, a parlarvi della sublime ossessione del cibo, ma non lo so mica se sono all’altezza di realizzare una “Lectio Magistralis”; tuttavia ci provo. Perdinci se ci provo! E comunque avrete modo di notare, poiché provengo da studi classici ma da quarant’anni faccio il mercante, che i miei ragionamenti sono biecamente (sebbene volontariamente), inguaribilmente (piuttosto che moderatamente), ossessivamente (appunto), ma nondimeno allegramente… votati alla pratica. Bè, almeno su questo aspetto della mia storia, azzardo che sarò originale.
Le 5 attività di base della vita
Dicevo… questa storia che sto raccontandovi, composta da parole e tanti numeri (più o meno giusti), vuole occuparsi della nostra vita e in particolare di una delle attività della vita: la prima, l’unica funzionale a far sì che questa abbia il suo corso e continui fino alla morte, cioè l’atto del mangiare. E già, perché se non mangiamo moriremo prima del dovuto. Per quanto riguarda tutte le altre pratiche possiamo perfino evitare di eseguirle e continueremo a vivere. Anche se temo che, in assenza di altre attività, vivremo da morti; come ha detto il grande Marcello Marchesi: “È meglio morire da vivi”. Dunque vi dico subito che alcune altre occupazioni umane non le ritengo meno importanti del mangiare. Per esempio amiamo, attività finalizzata al fatto che la vita prosegua anche dopo la nostra. Per esempio studiamo e lo facciamo per migliorare. Lavoriamo, allo scopo di produrre, sostenerci e progredire. E poi sogniamo, forse la parte più bella della vita; parlo dei sogni che facciamo di giorno, mica quelli di notte: sono i nostri progetti, grazie ai quali costruiamo l’avvenire.
Semplicemente è indubbio che il cibarsi costituisca l’attività primordiale, nel senso di “originaria”, cioè senza la quale non potremmo mettere in atto gli esercizi successivi, quelli volti a dare un senso alla vita. E, secondo me, per dare un senso completo alla vita occorre portare avanti le cinque attività basilari, che vi ho ricordato, in modo permanente e simultaneo: mai smettere di MANGIARE (bene e il giusto), AMARE (una persona e il prossimo in modo congruo ai soggetti), STUDIARE (con il corretto impegno e divertendosi), LAVORARE (idem) e SOGNARE (disegnando progetti). Lo so, lo so bene che è difficile, quasi impossibile vivere una vita così piena e completa come ve l’ho descritta, eseguendo con metodo le principali attività. Ma chi se ne frega: l’importante è provarci, arrivarci il più vicino possibile. “Godo in sovrappiù nel provarci che nel farcela, adoro l’incompiuto”, questo diceva Leonardo… e non è che il Da Vinci abbia vissuto inutilmente.
Una valle di lacrime
Dunque procediamo: il gesto del mangiare è, come detto, un’attività primordiale, senza la quale null’altro avviene, ma occorre ragionarci sopra oltre che ottemperare. Esiste un primo motivo per farlo: non si tratta soltanto di un dovere, è anche un piacere. Chi ci ha creato (oppure l’indecifrabile e disordinata razionalità della natura, per chi non crede in un Dio) si è inventato per noi un orgasmo legato a questo tipo di attività. Insomma godiamo a mangiare, così come godiamo ad amare. Per questo siamo naturalmente portati a compiere i due gesti indispensabili per vivere e assicurare la prosecuzione della specie. Furbetto il creatore, non trovate?
Ecco che abbiamo toccato i primi due aspetti del cibo: è indispensabile per sopravvivere e ci fa godere. Riguardo al vincolo c’è poco da dire, è una questione di benzina per il corpo, siamo fatti così, prendiamone atto e proseguiamo. Se invece ragioniamo sul lato del piacere… ebbene, qui si apre una valle: una valle di gioie e di lacrime. Delle gioie parleremo, ora ragioniamo sulle lacrime. Mangiamo altri esseri viventi… purtroppo. Mangiamo entità che a loro volta vivono, e vorrebbero vivere a lungo; perché è sempre quella natura, la stessa enigmatica natura che ci impone di mangiare, che li porta a provare l’eguale nostra aspirazione di morire il più tardi possibile. Mangiamo animali, che dobbiamo uccidere prima di ingerire, mangiamo frutta, vegetali e legumi, che dobbiamo staccare dalla pianta recidendo le connessioni naturali che li tengono in vita. Mangiamo, beviamo e respiriamo (certo, mangiamo anche respirando) di tutto, qualsiasi essere vivente… perfino i minerali, poiché pure questi vivono e determinano la ricchezza della terra madre dalla quale nasce tutto. Quante volte ci siamo ritrovati a riconoscere che in quel dato vino ci sono profumi e sapori minerali?! Per mangiare uccidiamo, distruggiamo vite che (come la nostra) sono fatte di aspirazioni, godimenti, pensieri e relazioni. Non vi è bisogno che vi ricordi che praticamente tutti gli scienziati della botanica sostengono che anche le piante pensano, a loro modo ma lo fanno, e non possiamo certo essere così supponenti da affermare che la loro intelligenza sia meno nobile della nostra. Dunque, e mi riferisco sempre a quell’entità (divina o laica) che ha fatto in modo che noi venissimo al mondo, chi ci ha creato ci ha sbattuto su di un pianeta dove per continuare a vivere siamo costretti a uccidere… come tutti fanno, anche gli animali e i vegetali, del resto. Pensate a quanti micro-corpi viventi, sia animali che vegetali che minerali, si pappa sottoterra una carota prima di emergere nel suo bel fiocco verde che ci avvisa ch’è giunta l’ora di estrarla.
Prendete tutto questo come una prima lacrima da permettere che sgorghi in noi.
L’immenso “parco cibo”
All’inizio, parlo dei primordi della vita del Sapiens (cioè noi), dunque più o meno tra 300 mila anni fa a 15 mila anni or sono, per mangiare facevamo i cacciatori/raccoglitori. Uccidevamo ed estirpavamo ciò che trovavamo in giro. Poi ci siamo mano a mano organizzati per farlo con metodo sempre più “industriale”, fino a quando qualcuno sveglio, ma molto sveglio tra i nostri avi, in una fertile valle tra due fiumi, il Tigri e l’Eufrate, ha provato a prendere un seme, metterlo nella terra, innaffiarlo e accudirlo: ha inventato l’agricoltura. Più o meno nello stesso periodo qualcun altro, meno “vegetariano”, ha trovato il modo di domare, all’interno di recinti, certe razze animali che meglio si prestavano (e più gli piacevano): ha inventato l’allevamento. Ma non pensate che tutto ciò sia avvenuto in un amen, sono occorsi migliaia di anni perché accadesse e venisse affinato. Guardate questa mappa che indica più o meno il percorso compiuto dai Sapiens verso la “terra promessa”, la cosiddetta Mezza Luna fertile, in circa 300mila anni. Ora guardate il percorso dell’agricoltura e della domesticazione, tra 15mila e 2mila anni fa; noterete che il numero degli abitanti, via via, negli anni, è sempre cresciuto, ma mica in modo costante. I forti incrementi sono partiti dall’invenzione dell’agricoltura in poi.
Perché è stata la domesticazione, vegetale e animale, che ha cambiato le sorti (decisamente in meglio) di noi umani. E a consentirci di diventare la specie dominante sul pianeta Terra. Almeno di questo noi siamo convinti… chissà se è vero. A questo proposito vi leggo una breve poesia che ho scritto qualche anno fa:
IL GRANO
Santo cielo! Sono nel bel mezzo di un campo di grano, è giugno, poco prima del raccolto, c’è il sole e tira un gran vento. Il grano danza.
Santo cielo! è meraviglioso. le spighe ondeggiano, a volte sinuose a volte frenetiche. Quelle intorno a me sfiorano sensuali le mie gambe e più in alto, là dove partono i turbamenti, dolci sirene dorate che cantano di vento.
Mi abbandono e il pensiero corre: improvvisamente comprendo quel primo uomo sedotto dalle spighe di grano che dolcemente si lasciò addomesticare.
“Piegati, coltivaci, dissetaci, curaci e noi ti ameremo, ci farai viver bene e a lungo, ti ripagheremo con polvere d’oro”.
Il grano ci ha addomesticato, e noi che pensavamo il contrario, ci ha piegato a portar pesanti secchi d’acqua, ci ha ridotto a fedeli servi innamorati. Santo cielo, cosa si fa per un piatto di pasta!
Negli ultimi 15 mila anni ci siamo organizzati, attraverso vari tipi di domesticazione, e successiva trasformazione, in modo di creare un vero e proprio “parco cibo” che ogni anno ci consente di nutrirci (insomma non proprio tutti) e di vivere spensierati (va bè, con livelli ben diversi di spensieratezza) in modo di poterci dedicare alle altre attività senza l’assillo di dover pensare ogni mattina a come procurarci il cibo attraverso appostamenti e complicate ricerche di fioriture spontanee. Oggi ci basta dedicare una mezz’oretta, ogni due/tre giorni, per fare la spesa in luoghi dove parte di questo immenso parco del cibo è presente, pronto lì per essere acquistato.
Come sempre: c’è chi è forte e ricco e chi debole e povero
Immenso, ho detto riguardo al “parco cibo” … volete sapere quanto? Guardate la tabella alle mie spalle e leggete un po’ di numeri che vi sto per mandare in sequenza. Ne vedrete di belli e altri diciamo meno piacevoli. Intanto un numero bello è quello degli abitanti in vita oggi sulla Terra: siamo in tanti, poco meno di 8 miliardi. Vuol dire che possiamo contare su 8 miliardi di cervelli che pensano, inventano e, connettendosi tra loro, favoriscono il progresso (“Connecting minds creating the future”, mannaggia, lo ha inventato un arabo questo meraviglioso motto, è lo slogan di Expo Dubai; non potevamo arrivarci prima noi?). Volete il numero giusto? Ok ve lo dico, ma solo per questa volta, tanto per accontentare i perfettini che sono tra voi. Dunque, sto guardando il sito Worldmeter che mi dice che in questo momento siamo in 7 miliardi, 921 milioni, 707 mila, 143. Mi dice anche che oggi, almeno fino ad ora, sono nate 291.590 persone e morte in 122.416. Ah, mi dice anche che la mia ricerca, attraverso Google, è la 6 miliardesima e fischia della giornata. Porca miseria, mi dice ancora, sotto la voce “Alimentazione”, che oggi nel mondo ci sono 857 milioni e 581 mila persone denutrite, un miliardo e 722 milioni in sovrappeso, di cui 800 milioni obese. Mi dice che 23 mila, 428 persone, oggi a quest’ora, sono morte di fame (ma vi rendete conto? Nel terzo millennio!), mentre soltanto oggi sono stati spesi, negli Stati Uniti, 470 milioni di dollari per malattie dovute all’obesità e 145 milioni in programmi per dimagrire. Intorno al cibo, che è una cosa bella, molto bella perché, come dicevo, ci fa godere, ci sono anche numeri brutti…orribili.
Ma andiamo avanti con i numeri. Vedrete che, attraverso i numeri, faremo presto a dare un peso alle immani dimensioni del tema cibo. Però, perdonatemi, d’ora innanzi vi dico solo più numeri arrotondati, quelli “più o meno” giusti che piacciono a me.
Il PIL mondiale è circa 85 mila miliardi di dollari, il valore del cibo prodotto è il 28%, cioè circa 24 mila miliardi, a tanto ammonta il valore del “parco cibo” a disposizione ogni anno per gli umani, un’enormità. Infatti ce ne sarebbe almeno per 12 miliardi di persone, ma noi ne sprechiamo più o meno il 35% e poi, come abbiamo visto poco fa, va a finire che alla fine di questa giornata moriranno più o meno 25 mila persone per mancanza di cibo; abbiamo anche saputo che ci sono nel mondo più di 850 milioni di persone denutrite. Non è giusto, siete d’accordo? Tanto più che, come ricordavo prima, nessuno decide se nascere qua o là.
Il fatto è che esistono le nazioni le quali sono più o meno ricche. Per esempio (leggete qua), negli Stati Uniti d’America basta meno del 7% del PIL per mangiare, mentre in Pakistan serve il 50%, evidentemente poi ci sono angoli del mondo (neanche tanto piccoli) dove non basta il 100%. Noi in
Italia, come vedete, spendiamo poco meno del 15%, misurandolo sul PIL, in realtà sul valore della capacità di spesa degli italiani il cibo vale ben di più, cioè il 24% e rappresenta la seconda voce dopo la casa (nel suo complesso) che vale il 35%. Per curiosità aggiungo che la terza voce è costituita dai trasporti (in generale), 11%, poi spendiamo il 10% a vestirci, mentre il restante 24% va in salute, divertimento, istruzione, altri servizi e risparmio. Risparmiamo molto noi italiani, siamo ricchi (singolarmente) e poveri, nel senso di indebitati, come Stato. In quanto a reddito prodotto risultiamo ottavi al mondo su 198 Nazioni, ma non crediate che anche da noi non esistano strati di popolazione che fanno fatica a mettere insieme il pranzo con la cena: ci sono 2 milioni di famiglie in grossa difficoltà, le quali son costrette a ricorrere alla carità per mangiare. Meno male che noi italiani siamo gente generosa. E poi anche a livello generale esistono ampie disparità in Italia: un bel 30% di differenza tra il nord e il sud quanto alla possibilità di spesa per il cibo. Ma è un fatto che tocca tutte le Nazioni del mondo. Insomma, come un tempo, ci sono i più forti e veloci che vanno a caccia portando a casa un buon bottino e quelli più deboli e lenti che restano a bocca asciutta. Altra lacrima please!
Educazione agroalimentare e senso della pietà
Tuttavia dobbiamo rilevare che la domesticazione e l’industria della trasformazione sono state capaci di ridurre queste differenze in modo sensibile. Oggi almeno il 50% della popolazione mondiale gode di cibo in quantità e qualità più che sufficienti, il 30% in misura sufficiente, mentre il 20% ne ha poco o molto poco o niente. Chi ha buon cuore ritiene si tratti di una situazione ancora molto ingiusta ma, appena 200 anni fa, meno del 10% della popolazione mondiale aveva di che mangiare a sufficienza, il 90% si arrabattava. Vi leggo poche righe tratte dalla “Malora” di Beppe Fenoglio, si riferisce ad una famiglia di contadini delle Langhe nei primi anni del secolo scorso, tra le due guerre mondiali, dunque appena un centinaio di anni fa:
“Almeno dopo tutta quella fatica si fosse mangiato in proporzione, ma da Tobia si mangiava di regola come a casa mia nelle giornate più nere. A mezzogiorno, come a cena, passavano quasi sempre polenta, da insaporire strofinandola a turno contro un’acciuga che pendeva per un filo dalla travata; l’acciuga non aveva già più nessuna figura d’acciuga e noi andavamo avanti a strofinare ancora qualche giorno, e chi strofinava più dell’onesto, fosse ben stata Ginotta che doveva sposarsi tra poco, Tobia lo picchiava attraverso la tavola, picchiava con una mano mentre con l’altra fermava l’acciuga che ballava al filo.”
Credetemi, Fenoglio non era tipo da esagerare. Quella condizione era molto diffusa nelle Langhe come in moltissime altre parti d’Italia, forse cambiavano gli ingredienti ma non la sostanza della “malora”.
Oggi va molto meglio, va (quasi) divinamente rispetto a quei tempi abbastanza recenti e son convinto che migliorerà ulteriormente. Ne abbiamo ancora di strada da fare ma la faremo. Credo incrollabilmente nella capacità umana di progredire, credo perfino nel buon cuore degli umani che, tra gli alti e bassi della storia, ha dimostrato che c’è, esiste. Credo anche e soprattutto nella crescita felice… perché la decrescita, credetemi, è sempre infelice e a pagarla sono sempre i poveri. Almeno è questo che la storia dimostra.
Dunque, una prima lacrima l’abbiamo versata quando ci siamo resi conto che per mangiare dobbiamo uccidere, la seconda perché nel mondo attuale esiste una paradossale ingiustizia sociale: produciamo tanto cibo che basterebbe per tutti, tuttavia vi sono molti umani che non ne hanno a sufficienza, perfino chi non ne ha del tutto.
La terza lacrima vi suggerisco di dedicarla al fatto che non esiste ancora una diffusa educazione agroalimentare che ci consenta di avere un rapporto consapevole con il cibo. Indubbiamente da quando addomestichiamo siamo diventati migliori nei confronti delle specie di cui ci nutriamo, insomma le trattiamo meglio rispetto a quando cacciavamo animali e estirpavamo vegetali selvatici. Ma c’è chi non piange lacrime sane, come noi, c’è chi ancora ricopre di prodotti chimici le piante con i loro frutti, chi usa diserbanti senza criterio, chi uccide senza pietà porcellini e vitellini nati da poche settimane. C’è chi infila imbuti in bocca alle oche per ingozzarle e far loro gonfiare il fegato, c’è chi fa vivere i polli come fossero a Guantànamo, chi alleva trote, salmoni, orate e branzini a migliaia per metro cubo di acqua insozzata da putrido mangime animale. Sulla domesticazione dobbiamo ancora migliorare, e di tanto. E poi, di carne, dovremmo mangiarne di meno. Va bè che siamo nati con i canini, va bè che il nostro corpo ha bisogno di proteine, va bè che la fiorentina è buona… ma noi del nord del mondo potremmo vivere, e bene, con la metà della carne che oggi sbraniamo. Sapete quanti bovini in allevamento ci sono in questo momento in Italia? 6 milioni. Quanti maiali? 13 milioni. Quanti polli? 500 milioni. E oltre l’80% di questi animali vivono in allevamenti intensivi che, oltre a negare il benessere animale, inquinano la terra.
Quello che manca, oltre all’educazione agroalimentare, è un sentimento importante: la pietà. Sta proprio in questo meraviglioso sentimento la netta distinzione tra chi alleva (e mangia) senza regole e chi di regole invece se ne da… e, oltre a a trattare meglio gli animali e i vegetali, tratta meglio anche l’ambiente, anche sé stesso e… gode perfino di più, ne parleremo.
Contro le perversioni: pane e marmellata
Ma ora vi chiedo un’ultima lacrima. Parliamo di chi ha un rapporto sbagliato con il cibo, occupandoci rapidamente dei tre macro-casi: chi ne mangia troppo, chi troppo poco e chi mangia male. Abbiamo visto prima che nel mondo ci sono 800 milioni di persone obese, un continente in pratica, ben più popolato dell’Europa. Sapete quanti ve ne sono in Italia? 5 milioni, come fosse tutta la popolazione di Roma, più Milano, più Torino. A parte le cause genetiche, che comunque sono una piccola parte, succede di diventare obesi quando il piacere si trasforma in bisogno, quando non si riesce più fare a meno del godimento alimentare, quando si entra in una vera e propria dipendenza da orgasmo da cibo. Le cause naturalmente sono psicologiche ma si concretizzano in necessità corporea. È chiaro che occorre lavorare sulle cause, ecco che entra in gioco una medicina essenziale: l’educazione agroalimentare. Sapete quanti anoressici e bulimici ci sono in Italia? 3 milioni, e per il 95% sono donne. Questi disturbi gravi dell’alimentazione riguardano soprattutto le ragazzine tra i 15 e i 19 anni. Sono talmente tanti i fattori psicologici che portano a queste gravi disfunzioni che non oso addentrarmene, tuttavia (come un mantra) ricordo che, se i genitori si dotassero di educazione agroalimentare e la trasferissero ai figli, il fenomeno sarebbe decisamente ridotto. Vi porto un esempio banale: pane e marmellata, magari pane da farine biologiche macinate a pietra e lavorato a mano con lievito madre, e marmellata senza conservanti da frutta bio: costa meno di una merendina industriale e fa godere il doppio, basta solo spiegarla bene sta cosa.
Su questo tema grave, della bulimia e della anoressia, ricordo con piacere che la Fondazione Guido Carli ha intrapreso un progetto che trovo originale e molto utile allo stesso tempo, perché affronta il vero nodo psicologico di chi, confrontandosi, cede allo sconforto. In pratica cerca di favorire l’avvento di una nuova dimensione dell’immagine, invitando stilisti e pubblicitari all’utilizzo delle donne cosiddette curvy, quelle che tutti i giorni vediamo per la strada. Brava Presidente Liuzzo, deve insistere. Oltretutto, e glielo confido da maschietto, sono molto più attraenti le donne “in forma” che certe ragazzine molto, secondo me troppo, magre.
Riguardo a quelli che mangiano male, cioè prodotti che non sono salutari, si tratta di persone troppo abitudinarie, che eccedono in grassi, sali e zuccheri, … ebbene, quanti sono? Non esistono statistiche perfettamente misurate; provo a dire io? Il 50%, un bel 30milioni di italiani. Vi è un’unica risposta, la solita: educazione agroalimentare. Se non conosco sgarro, ma c’è di peggio: se non so, credendo di sapere, sgarro facendomi del male.
La filiera del cibo
Perché la chiamo “agroalimentare”? Perché il cibo è frutto di una filiera.
Tutte le cose del mondo sono frutto di una filiera. Per esempio la nostra vita sociale è frutto di una filiera: sentimenti – pensieri – parole – comportamenti. Per esempio un albero da frutta è l’esito di una filiera: terra – radici – fusto – rami – foglie – fiori – frutto. Il nostro modello economico è figlio di una filiera: fabbrica – posto di lavoro – salario – consumo. Chiaro cosa intendo per filiera? Ebbene, definiamo la filiera del cibo: agricoltura – trasformazione – cucina – piatto. Occorre partire con cognizione di causa dall’inizio della filiera, e continuare con coerenza per ogni fase, se vogliamo giungere ad un buon risultato finale, cioè al cibo buono… che vuol dire sano, nutriente e che ci fa godere. In agricoltura possiamo usare concimi chimici, diserbanti… di ogni, oppure condurla in modo sostenibile, per esempio biologica. In fase di trasformazione, facciamo il caso dei salumi, possiamo usare nitriti, nitrati, solfiti oppure soltanto un’ottima catena del freddo. In cucina possiamo mischiare ingredienti alla rinfusa, cuocere troppo o troppo poco, condire con salse che coprono le gustosità originali, oppure rispettare i sani principi della vera cucina italiana: materia prima, trasformazione leggera, sapori riconoscibili.
Dico di più, se si conoscono i fondamentali di ogni fase della filiera, se si conoscono i produttori, le storie e le tradizioni che ci stanno dietro, se si sa come nasce un prodotto, se quel prodotto rispetta sia la natura che il tuo corpo… se di queste cose ne hai cognizione mentre infili la forchetta in bocca, ebbene godi di più, godi il doppio. Aggiungo una cosa che vi parrà strana eppure è vera, provare per credere. Quando mangi cibo che conosci, e sai essere di alta qualità, ti viene naturale rallentare la masticazione allo scopo di allungare l’orgasmo, dunque mangiando più lentamente arriva prima la sazietà e mangi di meno. Perfino con il vino avviene questo fenomeno, lo bevi più lentamente perché quel vino ti sta facendo godere, lo tieni in bocca più a lungo e alla fine… ne bevi di meno. Il mio motto è: comprare la metà di prodotti che costano il doppio, dopo essersi informati bene sul valore di quel prodotto. Alla fine spendi uguale, mangi la metà e godi il doppio: ecco che ho incominciato a parlare di gioie, avete notato?
Italia caput mundi
Per quanto riguarda noi italiani queste raccomandazioni valgono il doppio. Perché?
Perché l’abbiamo inventata noi l’agricoltura moderna. Tutto è partito proprio da qui, da questa città: Roma. E mica così tanto tempo fa: un’ottantina di generazioni prima della nostra. Conviene dare una veloce lettura a Plinio il vecchio, a Varrone, a Catone il censore, a Columella per comprendere l’impulso che la civiltà romana (ma chiamiamola pure italiana) ha impresso all’agricoltura. Cicerone considerava l’agricoltura come la migliore fra le occupazioni. I romani inventarono sistemi automatici di irrigazione, il moderno mulino per macinare il grano, la mietitrebbia, l’aratro moderno. Occorreva coltivare grano per sfamare oltre un milione di persone che vivevano in città, 5 milioni in Italia e una cinquantina di milioni in tutto l’impero, quando era al massimo del suo splendore, all’epoca di Traiano. E per farlo bene occorrevano macchinari.
Dunque, siccome l’abbiamo inventata noi l’agricoltura moderna, credo sia nostro dovere saperne almeno un po’. Per esempio, vi domando: quanti di voi sono sicuri di conoscere la differenza tra il grano tenero e il grano duro? Chi lo sa alzi la mano, sinceramente. (faccio una breve conta e dico la percentuale)… Ecco, debbo rivedere le mie ottimistiche valutazioni sulla sapienza agricola degli italiani. Ragazzi, parliamo di grano! Quello che sta alla base della nostra alimentazione, la quale si basa sui carboidrati: pasta, pizza, pane! Dobbiamo conoscerlo il grano. Ma non preoccupatevi, ho compiuto questo esperimento svariate volte e ho assistito a percentuali più elevate di ignoranza. Spero di avervi fatto venire voglia di andare a studiarvelo, il grano… Ma, siccome questa è una lectio, vi racconto il minimo. La pasta si fa con la semola, che è grano duro macinato, salvo qualcuna fatta in casa nel nord-Italia. Per la pizza si usa normalmente farina, che è grano tenero macinato, salvo qualche pizzaiolo eccentrico che usa semola. Il pane si fa con il grano tenero, salvo alcuni formati di pagnotte al sud, dove usano la semola. In pasticceria si usa farina. Il grano tenero ha un più alto indice glicemico, e meno proteine rispetto al grano duro, presenta pure un livello di assorbimento di acqua minore. In Italia siamo tra i più grandi produttori al mondo di grano duro e tra i più piccoli di grano tenero. Il grano duro costa circa il 50% in più rispetto al tenero. Basta! Il resto studiatevelo… e vi prometto che, quando ne saprete di più, godrete il doppio a mangiarvi un piatto di pasta. Anche perché magari, conoscendone i vantaggi, comprerete una pasta di grani antichi italiani a coltivazione biologica, estrusa a bronzo ed essiccata a basse temperature per lungo tempo. Per forza che godrete di più… scoprendo pure che, al piatto, costa soltanto 20 centesimi in più di una pasta industriale estrusa con il teflon ed essiccata in modo rapido ad alte temperature… e serve pure meno condimento.
E poi siamo considerati i più bravi artigiani del cibo al mondo. Perché la nostra nota altissima capacità manifatturiera, abbinata ad una tra le più sane agricolture al mondo, ci ha conferito una capacità di trasformazione del cibo quasi senza pari. E poi siamo, insieme ai francesi e qualche spagnolo, i più bravi cuochi al mondo. Dunque è un dovere per noi conoscere le fasi della filiera agroalimentare, almeno i fondamentali.
C’è ancora un motivo per impegnarsi, anzi ce ne sono almeno 6. Siamo tra i primi in Europa (e nel mondo) per numero di aziende agricole biologiche e biodinamiche. Abbiamo il terreno agricolo meno inquinato: soltanto un residuo chimico dello 0,012% contro una media europea dello 0,3%. Godiamo della più profonda biodiversità agroalimentare del pianeta e di conseguenza di un’imponente varietà di cucine tipiche, le quali tendono a differenziarsi, con prodotti e piatti unici, sia a livello regionale che provinciale, direi addirittura per singolo villaggio. Possiamo vantarci della più diffusa rete di osterie tipiche, le quali preservano, celebrano e cucinano le specialità dei territori, e di un numero di artigiani del cibo che non si trova in nessuna altra Nazione sulla Terra. Quante gioie! Dunque non ha senso che noi cittadini, fruitori di un tale ben di Dio, non siamo all’altezza in quanto a conoscenza della specialità che tutti ci invidiano al mondo: la cucina.
Educazione agroalimentare nelle scuole
Lo siamo… all’altezza? Direi di no, o comunque non abbastanza. Lo so, lo so che non abbiamo gli strumenti per imparare il fatto che in Italia esistono 538 diverse cultivar di olive; pensate che la Spagna, seconda a livello mondiale, ne ha 60. Lo so che non abbiamo gli strumenti per giungere alla convinzione che realizzare un vero olio di oliva extravergine italiano è costoso e complicato. Intanto occorre usare solo olive italiane coltivate con cura e raccolte tra mille difficoltà, perché spesso le piante vivono in luoghi impervi, poi le olive vanno spremute a freddo e trasformate in olio molto lentamente. Lo so che non lo sappiamo, perché altrimenti non storceremmo il naso per quel minimo di 15 euro che deve costare un litro di extravergine… dimenticandoci oltre tutto che quella bottiglia durerà mesi nella nostra cucina. Lo so che non lo sappiamo che in Italia esistono oltre 6 mila frantoi, di cui la stragrande maggioranza sono artigianali e impostati per piccole produzioni di altissima qualità, mentre in Spagna, che ne produce 6 volte noi di olio, i frantoi sono meno di 2 mila; altrimenti non metteremo nel nostro carrello certe bottiglie d’olio, di marca italiana ma di proprietà spagnola, che costano 3 euro e che per forza di cose non possono contenere vero extravergine italiano.
Il rimedio? Ora vi faccio sospirare di noia: educazione agroalimentare.
Per questo propongo che venga ufficialmente immessa tra le materie scolastiche di primo livello, e protratta dalle elementari fino alle medie superiori, l’Educazione Agroalimentare. Ma che sia impostata e vissuta come una delle materie più importanti, al pari dell’Italiano e della Matematica. Ogni Nazione ha il dovere, secondo me, di puntare sulle proprie vocazioni; mossa numero uno educare i giovani fin da bambini in questa direzione, ed abbiamo un’arma fenomenale a disposizione: la scuola. Perché non usarla? Forse è più difficile convincere noi grandi a studiare la storia, le tradizioni e le tecniche dell’agroalimentare italiano (anche se sono sempre portato a pensare che non sia mai troppo tardi), ma se incominciamo dai bambini e dai giovani è probabile che nel giro di una ventina d’anni il nostro bel Paese si ritroverà una classe dirigente con le idee chiare. Vabbè, lo stesso vale per l’arte, a mio parere.
Vi dico un’ultima ragione e poi giuro che non vi rompo più sull’educazione agroalimentare. Esiste un motivo, definiamolo subliminale (e non lo appello così a caso, infatti la radice è la stessa di sublime), per studiare il cibo e le sue origini. Portiamo nel nostro gene una forma, magari inconsapevole, di ossessione nei confronti del cibo, ce l’hanno tramandata migliaia di generazioni che hanno sopportato una fatica bestiale a procurarselo. Studiarne i molteplici aspetti può trasformare la nostra atavica ossessione verso una dimensione sublime. Parlo del concetto di sublime che proponeva Kant, il mio fraterno amico Immanuel Kant, padre dell’ottimismo, il quale metteva dentro al sublime sia l’estetica che l’etica: uno sguardo alla bellezza ed uno al rispetto. Vivere il cibo come un tema inevitabile, ma in modo sublime, significa trasformarlo in piacere per sé, e in principi morali votati al prossimo: è bellezza ragazzi, bellezza allo stato puro. E questo è un percorso che non può compiersi se non attraverso l’istruzione.
Il cibo in TV
Dobbiamo ammettere che negli ultimi anni dei buoni passi avanti sono stati fatti. E li dobbiamo alla televisione, e ai social. Ho provato a contare le trasmissioni dedicate al cibo che vanno in onda in questo momento sulle tv pubbliche e private, nazionali e di territorio. Giunto a 136 mi sono stufato di inventariare. Non parliamo dei blog che vengono divulgati attraverso i social in rete, quello è un universo. Vabbè, si va da “Cucine da incubo” ai corsi dell’Università di scienze Gastronomiche”, c’è di tutto. Pensate che nel 2007, quando abbiamo aperto il nostro primo Eataly non c’era niente… o quasi niente; si tratta di un fenomeno esploso negli ultimi 10 anni. Ora, vi debbo rivelare che io non provo un atteggiamento di erudita superbia nei confronti delle trasmissioni sul cibo; vi sono dei miei colleghi gastronomi, perfino dei miei maestri, che parlano di “pornografia alimentare”. Bè certe volte non posso dar loro torto, tuttavia sono portato per indole a cercare il bello in ogni dove, dunque riconosco che in molti casi hanno saputo originare una maggiore attenzione, direi perfino sapienza, da parte dei telespettatori nei confronti del cibo. Vi confesso che non adoro il militarismo in cucina propinato da Masterchef, anche perché non c’entra niente con l’Italia, è roba francese, tuttavia debbo constatare che quella trasmissione regala spunti validi per migliorare il rapporto con il cibo di chi guarda la trasmissione. Perfino in Camionisti in trattoria trovo del bello, perché comunque si parla di specialità del territorio. Se volete che citi qualche programma che mi piace in toto, dico Linea Verde, Il Provinciale e È sempre mezzogiorno; La prima si occupa di agricoltura e di trasformazione in modo serio, racconta l’Italia bella. Per quanto riguarda la seconda ancora ricordo certi racconti di Federico Quaranta molto poetici, su angoli d’Italia benedetti e su agricoltori e trasformatori che sono eroi, missionari della tradizione. Antonella Clerici poi è la Regina dell’Italia in cucina; per forza di cose si propone in modo nazional-popolare ma, attraverso la sua dolcezza e la sua simpatia insegna valori importanti, portando gli spettatori a scegliere meglio i prodotti, gli abbinamenti e le tecniche della cucina regionale italiana.
Certo che vorrei di più dalle trasmissioni sul cibo. Vorrei meno show e più professionalità agroalimentare; e gente come Cannavacciuolo, Barbieri e Locatelli di professionalità ne ha da vendere. Ma forse pretendo troppo, forse la televisione ha bisogno di show, più che di professionalità, per intercettare audience. Per spiegarmi meglio su ciò che vorrei ora vi racconto come mi piacerebbe che Antonino Cannavacciulo spiegasse una ricetta, e apposta scelgo la ricetta delle ricette della cucina italiana: gli spaghetti al pomodoro.
Spaghetti al pomodoro: la ricetta
“Prendete un campo di grano dell’entroterra trapanese. Lo avete seminato con la cultivar di grano duro antico Tumminia, ricco di proteine e glutine ma basso di ceneri. Lo avete coltivato in regime di agricoltura biologica. A giugno raccogliete e trebbiate. Nel frattempo, nelle terre di Sant’Antonio Abate, a sud di Napoli, avete piantato il San Marzano Dop, pomodoro lungo dal sapore straordinario: ridotta acidità e dolcezza infinita. Lo avete piantato verso fine aprile, rispettando rigorosamente le regole: almeno 40 centimetri tra una piantina e l’altra e 70 tra le file. Niente chimica mi raccomando. Verso metà luglio raccogliete i primi, belli maturi. Nel frattempo avete portato il grano al mulino, pregando il mugnaio di macinarlo in modo che ne esca una semola piuttosto “integrale”. Poi avete trasferito la semola in un pastificio di Gragnano, vicino a dove state aspettando che maturino i vostri pomodori bio. Il maestro pastaio ha realizzato gli spaghetti trafilandoli a bronzo e con una essicazione lenta: non più di 40 gradi per oltre 48 ore.
Lo so, ci abbiamo messo un po’ di tempo per avere in cucina le nostre due materie prime di base. Ma ora, in meno di un quarto d’ora, ci mangeremo il più buon piatto di spaghetti del mondo. Mettete a bollire 4 litri di acqua (ne serve rigorosamente un litro ogni 100 grammi di pasta), quando l’acqua incomincia a bollire buttate 30 grammi di sale grosso biologico di Cervia, altri 10 li aggiungeremo poi a “crudo” e, mentre il bollore giunge al culmine, buttate gli spaghetti. Nel frattempo avete messo una padella sul fuoco con 2 cucchiai di olio extravergine di oliva. Suggerisco un olio non troppo gustoso, tipo da oliva monocultivar Taggiasca. Aggiungete 2 mezzi spicchi di aglio di Vessalico (tanto per star vicini all’olio) a cui avete tolto l’anima, niente altro. Prima che l’olio prenda a friggere buttateci dentro 12 pomodori San Marzano dopo che li avete tagliati a dadi non troppo piccoli. Fate soffriggere a fuoco lento per il tempo che cuociano gli spaghetti, cioè tra 7 e 10 minuti. Per la pasta artigianale non esiste un tempo preciso, dopo 6 minuti assaggiate di frequente. Quando pensate che entro un minuto saranno perfettamente al dente togliete gli spaghetti dall’acqua e buttateli in padella rigirandoli per un minuto o due con il pomodoro. Prima di servire aggiungete a crudo un cucchiaio di extravergine taggiasco, 10 grammi di sale fino di Cervia e altrettanti di pepe nero di Penja (viene dal Camerun) macinato fresco. Ora godete!”
Tortellini o capelletti?
Vabbè, forse o esagerato. Ma vedetelo come il modo migliore per interfacciare agricoltura, trasformazione, cucina e piatto: una ricetta espressione della filiera agroalimentare, il mio pallino come (ai voi!) avrete capito. E poi non penserete mica mica che Antonino non ne sia capace; sarebbe dieci volte più bravo di me… e ritengo che gli piacerebbe pure raccontare così una ricetta. Semplicemente credo che i produttori di Masterchef lo licenzierebbero se ci prova.
Quanto mi piacerebbe sentire Bruno Barbieri (che è di Bologna) spiegarci perché a Bologna i tortellini sono ripieni di mortadella, a Modena di prosciutto, a Reggio di carni arrosto e a Rimini di formaggio; perché negli ultimi due casi li chiamano cappelletti e perché in ognuno dei quattro posti son convinti di averla inventata loro la tipica pasta ripiena emiliano-romagnola. Quanto sarebbe bravo Bruno a raccontarci la meraviglia della biodiversità emiliano-romagnola! Ma la tv ha i suoi tempi, battute corte, sguardi strani, gesti teatrali, lo comprendo. Capisco ma insisto: trovate il modo di regalare la vostra sapienza al pubblico italiano. Va bene che Masterchef si fa in 40 Paesi del mondo e che il format è uguale, collaudato e di successo, tuttavia io penso che in quello italiano, vista l’unicità della nostra Nazione in campo agroalimentare, un po’ di differenziazione identitaria non sarebbe male. Perdonate la mia ossessione.
A proposito di ossessione è giunto il momento di entrare nei particolari.
Quando l’ossessione diventa sublime
A partire dalla genesi del Sapiens (oppure di Adamo ed Eva, come volete voi) il cibo accompagna l’uomo attraverso varie forme di ossessione. Quella “della mancanza”, cioè l’ansia di procurarselo, l’ansia di non trovarlo; un tempo quasi il 100% dell’attività umana veniva dedicato alla ricerca del cibo; se non si cacciava, se non si raccoglieva si restava a digiuno. L’ossessione “della pietà” cioè il tormento del pensiero che per mangiare occorra sopprimere altri esseri viventi. L’ossessione “etica” che consiste nella sofferenza e nel pentimento, dovuti al fatto che altri umani non abbiano cibo in quantità sufficienti. L’ossessione “orribile” che ti porta a esserne dipendete senza misura, oppure a rifiutarlo. L’ossessione “della salute” cioè l’assillo di vedere in ogni tipo di cibo un pericolo per il tuo corpo. L’ossessione “della qualità” ossia l’ansia di procurarsi sempre e soltanto cibo di altissimo livello, la quale porta alla presunzione erudita, non si riesce più a parlare d’altro, ma neppure si aiuta il prossimo a migliorare. Infine la “sublime” ossessione; ed è proprio nell’ ossimoro che sta la meraviglia di questo tipo di atteggiamento umano. Un modo di essere che prende atto che il tormento riguardo al cibo è una componente naturale del nostro pensiero in quanto senza cibo termina la vita, tuttavia, se riusciamo a trasformala in “sublime”, la cosa può addirittura diventare piacevole. Poiché all’interno del significato di sublime vi è la componente determinante della leggerezza.
L’ossessione, diventando sublime, perde l’innata componente di pesantezza, trasformandosi così in una forma di nobile rapporto con il cibo, che da un lato rimane immanente, ma dall’altro si traduce in meraviglia. Naturalmente il concetto di sublime, nel nostro caso, oltre alla leggerezza, si basa sulla sapienza e sul pieno controllo del proprio corpo. L’orgasmo da cibo diventa consapevole e viene procurato da valori ben più alti del mero godimento papillare, cioè dalla conoscenza piena della storia e della tecnica che portano alla creazione dei cibi. Una conoscenza multidisciplinare perché attraversa l’intera filiera agroalimentare. In pratica consiste nello stesso impegno che è indispensabile sui fronti meno palpabili ma altrettanto importanti del nutrimento umano, parlo della cultura e dell’amore.
Noi Sapiens ci nutriamo sostanzialmente di queste tre cose per vivere, migliorare, e crescere: cibo, amore e cultura. In pratica ciò che propongo io, nel caso dell’ossessione del cibo, è integrare ai nostri piatti gli altri due nutrimenti, allo scopo di renderli sublimi. Cultura, nel senso di studiarlo il cibo, e poi amore. Una forma di amore che deve svilupparsi in più direzioni: verso il mondo dell’agroalimentare d’eccellenza che è composto da persone magnifiche, verso il prossimo in generale compiendo gesti che aiutino le persone a cui il cibo manca, verso gli animali e i vegetali i quali, pur dovendo essere mangiati hanno il diritto di vivere il più a lungo possibile e in condizioni di benessere, verso la Nazione che ci ospita perché lo merita, verso il pianeta perché la cattiva agricoltura lo inquina; infine verso sé stessi, premiandosi con godimenti (appunto) sublimi, ma in dosi misurate.
Finito… quasi
Ecco, intendevo terminare la mia storia/lectio con quest’ultimo pensiero sull’integrazione dei tre grandi nutrimenti dell’uomo. Mi sembrava un ragionamento all’altezza della conclusione. Ma mancavano ancora le ultime due tappe della mia settima giornata nel bosco. Quindi ho deciso di lasciarvi con qualcosa di più concreto, qualcosa di storico… qualcosa che magari per qualcuno di voi risulti nuovo ed originale. Chiudo con le due persone che in assoluto nella storia hanno dimostrato, più di ogni altra, che si può giungere alla sublime ossessione del cibo e nel contempo ci hanno lasciato in eredità una quantità immane di valori in campo agroalimentare. Parlo dei padri fondatori delle due cucine più blasonate al mondo.
Anthelme Brillat-Savarin è l’indiscusso caposcuola della cucina intesa come valore sociale, celebrato dai francesi come mito nazionale, ma le cose che ha scritto valgono per il mondo intero. È vissuto, prevalentemente a Parigi, tra il 1755 e il 1826.
Pellegrino Artusi è considerato a furor di popolo il fondatore della moderna cucina italiana, poiché ha messo insieme le migliori ricette delle cucine regionali del nostro Paese. Pellegrino è vissuto dal 1820 al 1911, prevalentemente a Firenze. Il bello è che nessuno dei due ha mai fatto il cuoco. Magistrato, politico e diplomatico il francese, mercante di tessuti l’italiano, ma entrambi grandi appassionati di gastronomia; talmente importante il cibo per quei due che in loro divenne una vera e propria ossessione… sublime, ma molto sublime.
Ho dedicato le mie due ultime panchine nel bosco a scrivere per voi questa breve storiella, ve la leggo.
Storiella su Savarin e Artusi
“La miglior salsa che possiate offrire ai vostri invitati è un buon viso e una schietta cordialità. Brillat- Savarin diceva: Invitare qualcuno è lo stesso che incaricarsi della sua felicità per tutto il tempo che dimora sotto il vostro tetto”.
Così scrive Pellegrino Artusi nel suo La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene, si tratta del capitolo dedicato alle salse. La frase citata esprime tutta la grandezza di Savarin, il fatto che Artusi la richiami dimostra la stessa cosa per quanto riguarda il gastronomo italiano. Due marziani per i loro tempi, due immensi guru per i nostri, gli autentici padri delle gastronomie cugine: quella nobile francese e quella domestica italiana.
Erano trascorsi 66 anni tra la prima pubblicazione di Fisiologia del gusto di Anthelme Brillat-Savarin a Parigi e quella di La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene di Pellegrino Artusi a Firenze. Già dai titoli si comprendono le caratteristiche peculiari che distinguono i due maestri. Un misto tra filosofia e maestria quella del francese, il compendio tra terra e arte domestica per quanto riguarda il romagnolo naturalizzato fiorentino. Si tratta in fondo degli stessi tratti caratteristici che distinguono le due cucine nazionali.
La gastronomia d’oltralpe nasce nei Restaurant, ben prima della nostra, e affonda le sue radici nella cultura e nell’abilità tecnica. Quella italiana prende vita nelle case, viene messa a punto dalle nostre bis-bisnonne e si basa sulle materie prime a disposizione nei territori. La prima sboccia tra padelle e un rigore quasi militare dei cuochi, la seconda parte dal mercato e viene alla luce tra le mura domestiche.
I due gastronomi per forza di cose non hanno potuto conoscersi. Quando venne stampato Fisiologia del gusto, nel 1825, Savarin stava a Parigi, aveva settant’anni e sarebbe morto da lì a pochi mesi, mentre Artusi era un bambino di cinque anni e viveva ancora a Forlimpopoli. Ma non vi è dubbio che Pellegrino, in seguito trasferitosi a Firenze e folgorato dalla passione per il cibo, lesse il libro del maestro francese. Incredibilmente non verrà trovato nella sua notevole biblioteca, ora esposta nella Fondazione che porta il suo nome a Forlinpopoli. Ma è evidente che lo possedeva, e che ne venne profondamente segnato. Infatti lo cita più volte. Sapete cosa penso? Che se lo sia fatto mettere nella tomba, insieme ai suoi resti.
Trovo che stia nella comune sapiente e profonda “leggerezza” il vero filo che lega i due personaggi.
Possiamo affermare che siamo di fronte a due grandi liberali, i quali permettono al lettore ampi spazi di interpretazione, direi addirittura violazione, di certe regole che i loro predecessori presentavano come vincolanti. Tuttavia, nello stesso tempo, introducono una visione così profonda sul rapporto tra uomo e cibo, tra scienza e cucina, tra cultura e storia… che, quella sì, diventa imprescindibile per chi è appassionato di cibo. Anthelme lo fa in un modo direi addirittura lirico, attraverso le sue meditazioni alte, Pellegrino offre maggior spazio alle ricette ma in ciascuna infila ragionamenti pieni di saggezza… e ironia. Per questo entrambi mi piacciono un sacco, siamo di fronte a due pionieri. Nel campo della cucina Savarin e Artusi non sono meno importanti di quanto lo siano stati Colombo, Vespucci e Magellano per quanto riguarda la geografia del pianeta.
Entrambi hanno dato alle stampe la loro opera a settant’anni. Entrambi hanno sopportato problemi non lievi a causa del proprio capolavoro. Il francese perché se ne vergognava ed era molto riluttante a pubblicarlo, tant’è che la prima edizione uscì con autore anonimo. L’italiano non trovò un editore che vi credette e se lo stampò con propri mezzi. Entrambi ebbero immediatamente un successo formidabile. La gloria Pellegrino potette godersela appieno, visto che gli sopravvisse per altri vent’anni, mentre Savarin ebbe appena il tempo di rendersi conto che tutta Parigi impazziva per il suo testo quando una polmonite lo fulminò. Entrambi si dimostrarono dei grandi ottimisti, mai egoisti, nella vita come nella scrittura… soprattutto nella ricerca del godimento attraverso il cibo.
Me lo sono immaginato Pellegrino, mentre legge le parole di Anthelm: “… Non ho fatto altro che ordinare i materiali raccolti da molto tempo. … Considerando il piacere della tavola, avevo visto da un pezzo che su questo argomento si poteva fare qualcosa di meglio che dei libri di cucina”. E decide di seguire la stessa strada (all’italiana).
Ma quei due hanno saputo entusiasmarmi così tanto che ho osato di più. Li ho immaginati che s’incontravano. Alla faccia del calendario.
Artusi: Che onore maestro. Il suo libro mi ha dato il coraggio di scrivere il mio. Lei è il primo in assoluto che ha detto “Dimmi quello che mangi, e ti dirò chi sei.”
Savarin: È così, caro Artusi. Addirittura penso che il destino delle nazioni dipenda da come si nutrono. In questo senso la mia Francia è stata grande. Abbiamo grandi Chef.
Artusi: Lo ammetto, ha ragione. Ma mi permetto di aggiungere che l’Italia ha dimostrato che per fare una grande cucina non è il caso di nascere con la casseruola in mano. La cosa più importante sono le materie prime.
Savarin: Questo è sicuro ma non sottovaluti l’inventiva. La scoperta di un nuovo piatto contribuisce molto di più alla felicità umana della scoperta d’una nuova stella.
Artusi: A volte però purtroppo accade che certe ricette stampate non corrispondano quasi mai alla pratica.
Savarin: E allora entra in gioco la fantasia dell’appassionato. D’altra parte La cucina è l’arte più antica perché Adamo, che non era un cuoco, è nato a digiuno. Il nostro compito, caro Artusi, è quello di raccontare i fondamentali. E non parlo di quelli tecnici, intendo i valori della gastronomia intesa come scienza, cultura. Come l’arte del godimento consapevole.
Artusi: Il mondo ipocrita non vuol dare importanza al mangiare; ma poi non si fa festa, civile o religiosa, che non si distenda la tovaglia e non si cerchi di pappare del meglio.
Savarin: Giusto, ma lei sa più di me che pappare del meglio richiede sapienza, studio, curiosità e direi anche amore.
Artusi: Quanto ha ragione. È stato lei a insegnarmi a diffidare dei libri che trattano di quest’arte; per la maggior parte sono fallaci o incomprensibili, specialmente quelli italiani; meno peggio i francesi. Il suo poi è una bibbia del saper mangiare.
Savarin: La ringrazio per questo e non è per sdebitarmi che le le dico: mi è piaciuto molto anche il suo. Anche io ho imparato da lei. Per esempio ho appreso che hanno inventato una torta che porta il mio nome. Grazie per averne scritto la ricetta. Debbo solo rimproverarla per una cosa. Lei non tiene in gran considerazione la mia fondue, quella che voi italiani chiamate fonduta e lei in particolare battezza come cacimperio. Spero abbia modo di rivedere il suo giudizio. Lo ritengo un piatto dal fulgido futuro.
Artusi: Senz’altro terrò conto di questa sua raccomandazione. Ma lo dice pure lei che De gustibus non est disputandum. A proposito di gusto mi piacerebbe approfondire il parallelo, in cui lei si avventura, tra il piacere del mangiare e quello del sesso…
Ciao
E qui mi fermo, perché i due stanno entrando in un argomento piccante che non è all’ordine del giorno, oggi. Tuttavia mi rendo conto che forse vi è venuta una certa… diciamo, curiosità.
Dunque vi informo soltanto del fatto che Savarin è partito a raccontare del nostro Rossini: eccelso e famigerato cacciatore di donne e cibo. A quel punto l’Artusi, per stare all’altezza e ricambiare, gli ha riferito di un certo scrittore francese che ha saputo dare il meglio di sé quando Anthelme era già passato a miglior vita: Alexander Dumas (padre), il quale diceva:
“Amo le donne giovani e il vino invecchiato, possibilmente che abbiano la stessa età. E quando avviene il “coevo” incontro porto una bottiglia dell’anno di nascita della Signora: doppio piacere in un sol turno. Non saprei dirvi quale delizia si riveli la più ragguardevole; ma non cerco il confronto, ciò che inseguo è la simbiosi, la fusione, l’estasi… il risultato esponenziale”.
A quel punto il gastronomo francese, anche per dimostrare di conoscere bene la storia italiana, si è avventurato in un pistolotto sugli usi e costumi della Roma antica. Storie di triclini, banchetti e lussuria. Roba da far imbarazzare gli stessi Plauto e Catullo… e il sottoscritto naturalmente. Dunque non ve lo riporto.
Vabbè, chissà se la Presidente Liuzzo vorrà organizzare, il prossimo anno, una lectio dal titolo “Il sesso: sublime ossessione”, lo trovo difficile. Ma, nel caso, non le sarà difficile trovare emuli di Rossini e Dumas che sapranno svolgerla con la dovuta grazia.
E, con questa specie di battuta, vi saluto e vi ringrazio per l’attenzione.